Vino

Il vino dell’Amerino: per un’estetica originale della frugalità

Il vino e la lingua

Per raccontare il paesaggio dei sapori del vino dell’Amerino, proveremo a partire dalla lingua. Quella lingua che assaggia e degusta è infatti la stessa lingua che parla e comunica, evidenziando nell’atto del gustare una vocazione genuinamente linguistica in virtù della quale le questioni di palato si risolvono continuamente in questioni di parlato. Ora, però, nel parlare di vino, la sete generica di storie si va facendo sempre più forte della sete di lingua, o (meglio) di storie con una bella lingua. E così le parole del vino, già troppo spesso confinate in un gergo autoreferenziale poco comprensibile ai più, perdono simultaneamente eloquenza e originalità. Rinunciano cioè a quella capacità di persuasione stimolata dal tentativo di riformulare personalità ed energia del vino, così necessarie a comunicarne la qualità dei sapori, a condividerne la temperatura emotiva; e allo stesso tempo sacrificano l’originalità del gusto in nome di una tipicità banalizzante. Cercheremo di contrastare questa tendenza, di metterci per così dire “di traverso”. E proveremo a integrare il racconto dei vini dell’Amerino con una lingua altra, alla ricerca di un’originalità da intendere non certo nel senso della stravaganza, bensì nell’accezione esplorativa stimolata dalla relazione con un’origine, con un luogo. Nella convinzione che non si tratti soltanto di apportare qualche lieve modifica al lessico della degustazione, ma che sia più utile rimodulare a fondo la nostra sensibilità interpretativa ed elaborare una diversa prospettiva critica.

Frugalità del Grechetto

La parola “frugale” deriva dal latino frux/frugis (frutto), e ricorre a indicare la sobrietà e la moderazione, istituendo il nesso per cui è propriamente frugale chi si nutre di frutti. A ben guardare, il termine latino frux non significa solamente frutto, ma anche cereale e raccolto in senso lato, trasferendo così all’aggettivo frugale un’accezione ulteriore: chi si ciba dei frutti della terra rinsalda un rapporto con i ritmi del produrre e del consumare animato da una ricerca di misura nella soddisfazione, di moderazione nell’appagamento.
La peculiare identità dei vini dell’Amerino incoraggia questo atteggiamento. Nel senso che mette in gioco un repertorio di sapori genuinamente ispirati a un gusto sobrio e moderato, che rilanciano le risorse di una frugalità tutt’altro che rinunciataria. Anzi, al contrario: una frugalità filologicamente “epicurea”. Cosa altro sarebbe la φρόνησις (frònesis) tanto cara al filosofo di Samo se non l’invito a mettere al centro dell’esperienza umana la ricerca di “piaceri semplici”? Ce lo ricorda Emrys Westacott nel suo Frugalità. Storie della vita semplice, (Luiss University Press, 2017), risalendo alla lezione di Epicuro – tra le più fraintese e distorte – per definire un profilo della frugalità che coinvolge un’esistenza integra e gratificante, in cui l’assenza del superfluo è anche simultaneamente custodia del necessario e sa stimolare il gusto per l’essenziale.
Come nello stile di vita della persona frugale si afferma un habitus che lo tiene lontano dagli eccessi del consumo industriale e dal glamour seduttivo di una gourmandise spettacolarizzata e artificiosa, così anche nel vino dell’Amerino la cifra originaria della frugalità si definisce all’opposto dell’opulenza e dello sfarzo, fa attrito con il lusso e rivela una vocazione gastronomica quotidiana che non è mai un ripiego. Non un cammino di penitenza, nessuna preclusione del piacere, semmai un esempio di appagamento “in sottrazione”. 
Basti pensare alla personalità espressiva di un Grechetto: non certo un vino bianco di particolare articolazione, né di accentuata intensità aromatica; anche il profilo gustativo che lo caratterizza non ha niente di accattivante, né tanto meno di esotico. È per contro un vino “a lento rilascio”, vale a dire capace nelle versioni di più accurata perizia artigianale di custodire un’energia discreta che ne riscatta l’apparente neutralità dei primi mesi in bottiglia; e ne propizia col tempo un’evoluzione inattesa nel registro di quelle note che rimandano al gusto dei cereali, dell’orto, della macchia. Insomma la quintessenza di profumi e sapori mediterranei, integrati da una componente fruttata che non ha niente a che vedere con la dolce morbidezza della frutta tropicale, anzi. È semmai il gusto della pera “muntiliona” e della mela amerina quello che viene da richiamare per analogia, un gusto innervato da una sapidità che rivela la funzione complementare del vino rispetto al cibo, vale a dire la sua natura di compagno della tavola e di tramite della convivialità.
Le ricadute più evidenti e significative di una simile affermazione del gusto frugale sono almeno due: da un lato, in opposizione alla volgare spettacolarizzazione del vino e del cibo, si ribadisce che nell’alimentazione, come nella vita, un’estetica senza etica è un’opzione decerebrata. E che la nostra antica cultura enogastronomica si organizza intorno a un sistema integrato, che riconosce alla frugalità mediterranea la custodia di un equilibrio innescato dalla stessa precarietà del mondo contadino. È evidente come la riscoperta di una frugalità così intesa vada a saldarsi all’affermazione del paradigma ecologico e alla consapevolezza della limitazione delle risorse. «Tutte le espressioni della frugalità implicano il concetto che le risorse sono limitate: proprio nello stile di vita a risorse limitate la frugalità esprime le sue ragioni esistenziali, sociali e politiche» (Valerio Paolo Mosco, Frugalità, Lettera Ventidue, 2022).
Dall’altro lato la rivalutazione del gusto frugale mostra profonde connessioni con alcuni valori portanti dei paesi e dei borghi dell’Amerino Tipico, artigianalità e lentezza in primis. E alimenta un riferimento al genius loci che resiste al cliché di una tipicità da sagra paesana, agli stereotipi di una territorialità da cartolina postale. La territorialità del vino dell’Amerino – come pure di qualsiasi altro distretto produttivo – non potrà mai venire assimilata alla banalità di un presunto “rispecchiamento”, come si sente dire spesso e a sproposito. Il vino non rispecchia un territorio, semmai lo interpreta, avendo piuttosto a che vedere con le pratiche di una “mescolanza” che ibrida gli elementi del paesaggio dei sapori locali e li combina attraverso le pratiche di un complesso savoir faire, che è impossibile, oltreché profondamente sbagliato, assimilare integralmente al modello di una competenza tecnica da trasmettere e di un protocollo da seguire.
E aggiorna pertanto la propria succulenta frugalità nel segno di una territorialità dinamica e originale.

Originalità del Ciliegiolo

Eccoci così introdotti come meglio non si potrebbe a parlare del vino Ciliegiolo. Molto è stato scritto in questi ultimi anni a proposito del rilancio di questo rosso di spensierata scorrevolezza, a lungo confinato in un ruolo gregario e subalterno. Un ruolo affibbiatogli in ossequio a quell’orientamento di consumatori e addetti ai lavori che tendeva a riconoscere più alto rango ai vini rossi dalla trama fitta, dalla materia concentrata, dai profumi maturi, dalla struttura solida e dalla persistenza pronunciata. Vini per nulla frugali, ovviamente, ma spesso soltanto appariscenti se non proprio velleitari. E talvolta perfino pacchiani.
Di tutt’altro segno la prospettiva critica che ha propiziato la recente riscossa del Ciliegiolo: una visione che smette finalmente di considerare come un pregio incontestabile la levigata sfericità e la voluminosa opulenza di vini che poi però si fa fatica a bere. E torna ad «apprezzare la semplicità come una risorsa, a non confondere il vino vistoso con quello elegante, a non preferire ingenuamente l’accumulo alla sottrazione, a non sopravvalutare le doti di pienezza e intensità, specie se artificiosamente enfatizzate, furbescamente ammiccanti e in ultima analisi prevedibili.» (A. Castagno, G. Gravina, F. Rizzari, Vini da scoprire. La riscossa dei vini leggeri, Giunti, 2017).
Ecco, a fronte di tanti vini da concorso fatalmente prevedibili e noiosi, il Ciliegiolo dell’Amerino rivela senza alcuna enfasi la propria succosa spontaneità come un qualificante elemento di piacere. E perciò come un valore, non più come un limite. In questo aspetto sembra risiedere un primo tratto distintivo della sua originalità, che rinsalda una forte connessione con il tema dell’origine: originato in un distretto produttivo orientato da sempre nel segno della biodiversità, il Ciliegiolo dell’Amerino lascia apprezzare la propria schietta vitalità come una delle qualità espressive più felici e gratificanti.
Prendiamo ad esempio il suo carattere fruttato: è il sapore della ciliegia morazza (la Nera d’Amelia) che il vino suggerisce, e non certo quello del succo di mirtillo industriale, artificiosamente ammorbidito ed epurato di ogni asprezza; è la succosità della susina armascia, che stimola la salivazione, non la dolcezza zuccherosa della ciliegia candita, statica e monocorde. Così percepito, il carattere fruttato perde quel tratto prevedibile e uniforme, che tende ad assoggettare la piacevolezza concentrando le sensazioni nella parte anteriore del palato; e si arricchisce per contro di sfumature floreali, di richiami alla macchia mediterranea, al pepe fresco appena macinato. Non è più l’elemento centrale del piacere, bensì una voce tra le altre che anima l’espressività del vino, ne stimola la dinamica gustativa e la tridimensionalità.
Nella soporifera consuetudine con un modello di piacevolezza che prevede solo le sensazioni più ovvie e accattivanti – morbidezza, concentrazione e dolcezza su tutte – il Ciliegiolo dell’Amerino squaderna nelle sue versioni più ispirate la vitalità di un frutto che si riappropria con gli interessi di una spontanea selvatichezza. E si rivela un vino appassionante, che fa valere la propria avvincente schiettezza per veicolare un’immediatezza non omologata. E per sottrarre così la piacevolezza fruttata alla deriva del suo addomesticamento artificioso, risvegliandone un’espressione vitale e contrastata, sensibile al gusto per la dissonanza e in definitiva più autentica.
Così caratterizzata, questa peculiare accezione dell’originalità lascia ora lampeggiare un profilo inedito, o comunque poco esplorato. Dovendo semplificare, si tratta della capacità di stupirsi per le cose semplici, che anche un bicchiere di Ciliegiolo può propiziare. Certamente, il peso estrattivo e la densità interna non sono le sue principali risorse; ma la silhouette snella, l’agilità del sorso e la scorrevolezza della dinamica gustativa ne fanno un vino dalle sorprendenti virtù gastronomiche, che asseconda con imprevedibile versatilità gli abbinamenti con il cibo, ed esprime una fragranza luminosa e coinvolgente, preziosa alleata della beva e della tavola.
«Interrogare l’abituale. Ma, appunto, ci siamo abituati. Non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra costituisca un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non veicolasse né domande né risposte, come se non contenesse nessuna informazione. […] Interrogare quello che sembra talmente evidente che ne abbiamo dimenticato l’origine». (Georges Perec, L’infra-ordinario, Quodlibet, 2023)
È un vino “infra-ordinario” il Ciliegiolo dell’Amerino, proprio nell’accezione cara allo scrittore Georges Perec, che di questo termine è stato per così dire l’inventore. Un vino cioè capace di suscitare una sorta di “spiazzamento creativo” del quotidiano, che ci impegna a scandagliarne la semplicità del sorso per discriminare l’essenzialità come valore dall’anemica povertà di stimoli, per distinguere le sorprendenti sfumature di un carattere “finto-semplice” dalla banalità di una magrezza inespressiva.
E che ci invita finalmente a fare nostro un atteggiamento critico e interrogativo, per imparare ad apprezzare l’assenza di orpelli come il segno di una deliberata frugalità, tutt’altro che rinunciataria o prevedibile. E per saper cercare nella semplicità quella primaria necessità di distinguere sempre, ogni giorno, l’essenziale dal superfluo.


Giampaolo Gravina

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